
Algoritmo, ovvero un esercizio di potere
Algoritmo è una parola ripetuta spesso oggi.
La parola comparse nella mia vita all’inizio dell’attività lavorativa nel 1970.
Per me, ma per l’informatica dell’epoca, rappresentava, e continua a rappresentare, la messa in esercizio di uno schema che attraverso successione di azioni guida verso punti nodali dove si trovano le scelte che dirigono, a seconda della scelta, verso percorsi alternativi.
La trascrizione di un algoritmo con un linguaggio di programmazione, fa passare all’azione l’idea primigenia secondo i percorsi stabiliti precedentemente schematizzati.
La parola algoritmo emerge, e diventa corrente al di fuori dei domini colti, negli anni 1960, ha etimologia penso araba (rimarco che in tutto quanto è logica-aritmetica-matematica-geometria-geodesia-astronomia-trigonometria-etc. gli arabi sono stati sempre i primi sia in termini di invenzione, dal latino invenire, che in termini di qualità).
Poeticamente io gli do anche un’etimologia greca come cadenza regolare di dolore, ma è evidente che così non può essere, perché, anzi, la stesura schematica di un quesito dovrebbe aiutare la soluzione (molto spesso però la mancanza di conoscenza e di professionalità la complica, ma non arrendiamoci mai e siamo sempre noi i lineari!).
Dunque, algoritmo è lo schema delle scelte.
Ma come si fa a schematizzare una scelta che nella vita comune è spesso affetta da umoralità, e da miriadi di fattori collaterali che sfumano millimetricamente il percorso?
Non demoralizziamoci, l’ottanta e forse più per cento delle scelte si possono fare con algoritmi precisi; anzi il 100% ma i risultati di un buon 20% saranno incomprensibili o fuori tema.
Ma possiamo sempre costruire un algoritmo che seleziona ulteriormente nel 20% ipotizzato e affina i risultati… e così via.
Ritengo comunque, contrariamente ai cibernetici più fanatici e accreditati, che la potenza del ragionamento umano non possa essere imitata da algoritmi anche se estremamente sofisticati.
Top-down o bottom-up?
All’origine la programmazione era top-down ma poi è arrivata la programmazione bottom-up e la rivoluzione è stata pesante.
Vediamone la differenza.
Prima si programmava pensando al grande problema e piano piano si scendeva nei dettagli, top-down quindi!
Ora si programmano i piccoli dettagli, si consolidano e poi si aggregano per portare a soluzione il grande problema, ed abbiamo il bottom-up!
Questo nuovo approccio determina maggior facilità organizzativa di ripartizione del lavoro di programmazione che nel tempo è divenuto sempre più mastodontico.
È evidente che più spingiamo organizzativamente e più ci ritroveremo agli appuntamenti operativi correttamente sincronizzati.
Philosophiae Doctor
Parleremo poi dell’evoluzione filosofica che porta a creare schemi semplificati in funzione del livello culturale, tanto che il massimo livello di studio viene indicato con l’abbreviazione Ph. Doc. (cioè guarda caso utilizzando il latino: Philosophiae Doctor).
È certo che gli unici che possono ben sopravvivere all’eccessivo strapotere del capitalismo sono i detentori del sapere. Gli altri saranno, a gradini sempre discendenti sempre meno capaci di contrastare questo strapotere fino ad essere considerati inconsapevoli schiavi senza (o con minime) possibilità di riscatto.
Dunque, algoritmo, sì perché recentemente abbiamo letto che Facebook sta affinando i propri algoritmi per favorire o sfavorire categorie di utenti in funzione delle loro scelte d’impulso.
Francesco – mio figlio – mi direbbe ora che esiste da sempre, e contraddistingue l’umano dal resto della natura, il libero arbitrio.
Ha ragione ma quante sono le azioni che eseguiamo, statisticamente, esercitando il libero arbitrio invece di ricadere nella monotona ripetizione del consueto? Anche solo per stanchezza ci lasciamo facilmente trasportare dai tran-tran psicologici o dall’abitudine che, vista in negativo, diviene coazione a ripetere.
Dunque, algoritmo, sì perché da tanto tempo sono caduto in una trappola – ma non è grave – del gioco su tablet, dove mi sono reso conto che sono, siamo, preda di algoritmi, anche grossolani che possono impedire o facilitare la vittoria.
La ludopatia
Da tempo pensavo di dar forma ai passi inaccettabili di questo sistema perverso, ma ora che sono arrivato a dei livelli di gioco abbastanza avanti nel loro percorso, ho deciso che devo farlo, anche perché noi romantici del tubo, abbiamo bisogno di un’evidenza più che evidente per capire i meccanismi di fregatura, e a volte non ci salva nemmeno l’evidenza! Per inciso, ho abbandonato quel gioco che mi ha indotto a questa lunga e articolata considerazione.
Perché il gioco ci fa seguire i suoi percorsi, non i nostri e ci fa vincere quando non ce l’aspettiamo, e ci fa perdere quando non ce l’aspettiamo e tutto secondo la sua logica, e qualche volta sei al colmo dell’ira perché non riesci, e… tac… l’algoritmo “se ne accorge” e ti capita la vittoria; sto personalizzando con sentimenti umani.
Ma entriamo in dettaglio.
Un gioco inizia e, siccome è una sfida, sia noi che l’automa-macchina, siamo dotati di mezzi atti all’offesa e alla difesa.
Effettuiamo una scelta e immediatamente l’avversario-macchina mette le cose in modo da renderci difficile il passo successivo.
Noi non ce ne accorgiamo, perché apparentemente niente cambia dallo schema iniziale; a noi sembra! Ma la macchina, nel concederci gli strumenti di offesa o nel disporli in specifica condizione ci permette di procedere da lei controllati.
Ma siccome noi dimentichiamo facilmente il piccolo percorso successivo al passo appena compiuto, o dimentichiamo facilmente quello che è successo durante la precedente battaglia con lo stesso schema, siamo portati a seguire i percorsi che ci sembrano più logici, ma che la macchina ha predisposto proprio perché ci sembrassero più logici.
Uno sgambetto dopo l’altro
Spesso, anzi quasi sempre, cadiamo nel tranello. E se anche vogliamo fare gli anticonformisti, la macchina non mi impedisce un passo che non aveva previsto, ma si rifasa immediatamente dopo sul suo algoritmo che ha molto spesso come risultato richiesto quello di farmi restare il più possibile sull’applicazione, oppure di indirizzarmi a facilitazioni di percorso di vittoria, ma guarda caso a titolo oneroso (che siano soldi realmente richiesti o moneta fittizia poco importa).
Allora se mi serve un’arma, quella non mi viene mai data salvo quando non mi serve più; se voglio proseguire a destra trovo un cammino sbarrato, ma a sinistra è favorito, se voglio unire in sinergia più elementi, questi sono distanti, etc… e queste situazioni sono in essere fin che fa comodo all’algoritmo (o meglio, ricordiamolo! all’uomo che lo ha programmato) poi improvvisamente, quasi la macchina sentisse che incominci a stufarti sia per le difficoltà sia per la distanza dalla soluzione, ti ritrovi come in discesa e senza fatica risolvi tutto in un battibaleno.
E allora riprendi lena e coraggio e continui: la macchina non vuole che tu abbandoni, sennò il suo obiettivo non si realizza perché il tuo abbandono è la vera sconfitta della macchina, a meno che non sia anche quello, l’abbandono, programmato.
Passiamo alle misurazioni, perché la realtà è l’uomo, quello che è dietro a quella che ho chiamato macchina, che deve produrre i suoi risultati e su questo, visto che ha un capitale che lo controlla e che lo remunera, deve portare i risultati che all’ultimo gradino sono risultati economici, quindi: tot contatti ottenuti, tot tempo medio di permanenza sull’applicazione, tot tempo pubblicitario vendibile in funzione dei parametri precedenti, tot pubblico in termini di contatti, etc… a sua volta il capitale deve combattere con altri capitali in termini di finanza, e là la guerra sì che è senza pietà, ma chi impersona il capitale si consola, se così umanamente ci si può esprimere, concedendosi, sempre a livello umano, lussi, disponibilità, che altrimenti non avrebbe potuto concedersi; ma è un meccanismo perverso dove alla fine ci si morde la coda.
Ma, continuando nel paradosso di rincorrersi la coda, poi gira la testa e si può cadere, o malati, o in condizioni di panico, o fisicamente, e l’unica medicina è la coazione a ripetere, al capitalizzare ulteriormente.
Vado avanti. Per continuare a capitalizzare in denaro e in potere però qualsiasi scrupolo umano si perde e si cade nel cinismo più bieco. Non esistono più limiti al corretto. Si spazia nell’umanamente, moralmente, civilmente e politicamente scorretto, e più si riesce ad infrangere regole per ottenere lucro e più si è considerati.
Ecco l’ipocrisia che diventa abnorme e, dico io, ridicola.
Non ho ancora citato la civiltà, si fa per dire, americana ma qui comincio.
L’etica esiste solo sulla carta, nei bla-bla o per far parlare i filosofi. Peccare, in tutti sensi, civilmente, moralmente, giuridicamente è permesso, direi quasi incitato; a condizione di non farsi prendere con le mani nel sacco, a condizione di non avere la flagranza di un reato qualunque, anche minimo.
L’esempio più semplice e calzante che ripeto sempre: il più noto malavitoso, mafioso, gangster di tutti i tempi fu Al Capone, un italiano figlio di immigrati negli Stati Uniti alla fine del 1800, che riuscì a sfuggire ad accuse di tutti i tipi per i delitti più efferati e senza pietà e fu condannato solo due volte: la prima volta fu per possesso di armi illegali e scontò solo nove mesi, dell’anno di carcere inflittogli, durante i quali continuò a gestire i suoi affari e la sua gang dall’interno del carcere prezzolando guardie e responsabili; fu rilasciato in anticipo per buona condotta!
La seconda volta fu quella che lo portò al declino, fu per evasione fiscale e la condanna fu di undici anni e 50000 $ di multa. Pagata la multa con nonchalance continuo a condurre i suoi affari dal carcere finché non lo mandarono ad Alcatraz a regime molto più duro e dove i funzionari erano incorruttibili.
Fu liberato in anticipo, dopo otto soli anni, perché malato di sifilide, contratta in gioventù, morbo che influenzò la successiva demenza senile.
Morì per un attacco di cuore, quando già aveva perso potere per l’incapacità fisica e mentale prodotta dalla malattia. Aveva 48 anni.
Tutto questo riassunto per spiegare che un gangster della brutalità e del cinismo di Al Capone, mandante di decine di omicidi e contrabbandiere, influenzatore, corruttore della politica statunitense per oltre vent’anni cadde per una lieve infrazione di evasione fiscale. Come al solito l’imperdonabile non è compiere un’infrazione alla legge, ma il farsi beccare.
Penso che non sia sbagliato sottolineare che questo degrado morale della società sia da ascrivere al deterioramento delle istituzioni e all’insinuarsi delle ragioni del capitalismo a surrogare, o meglio a sovrascrivere le norme democratiche ed etiche di una comunità.
Dove la corruzione non riesce ad essere mitigata e contenuta, se non annullata, dalle istituzioni democratiche succede che le masse abiurano al loro volere di democrazia.
Già Platone ci ammoniva sul fatto che la democrazia perfetta non esiste, ma la tendenza deve sempre essere, come in tutte le cose, verso la perfezione accettando alcuni aspetti meno deleteri.
La scomparsa dell’egemonia greca sul Mediterraneo è sorta da questo tipo di degrado non controllato, così quella romana sull’Europa intera, e parimenti quella delle fiorenti e rigogliose civiltà medio orientali, orientali e paleo-americane a noi meno note.
Ma guarda un po’ dove sono arrivato da un gioco su tablet!
Mentre scrivo tutto si accavalla, come i cavalloni sulla spiaggia e uno non ha ancora smorzato la sua forza, che arriva il successivo che si confonde con il precedente, e così senza fine.
Quasi come la folla d’anime che si accalca in un continuus senza fine sulla riva d’Acheronte agli ordini di Caronte.
Similemente lo mal seme di Adamo:
gittansi di quel lido ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
Ed avanti che sian di là discese.
Anche di qua nova schiera s’aduna.
Dante, Inf. III, 115-120
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