Mentre scrivevo un post su Facebook concernente l’inno nazionale non cantato dai privilegiati spettatori della tradizionale Prima di Sant’Ambrogio alla Scala mi sentivo gravido di insulso polemismo e mi dicevo che l’eccesso di attaccamento a certi principi rischia di farmi diventare un noioso e inutile interlocutore.
Ho notato invece che la cosa è stata presa sul serio da qualcuno che ha chiosato quanto avevo scritto.
Questo il mio post, spezzato in due per mantenere l’evidenza:
Ci lamentiamo se gli sportivi non cantano l’Inno nazionale e alla Scala nessuno l’ha cantato. Protocollo?
Qualcuno ha posato la mano sul cuore nell’orripilante scimmiottare di usanze d’oltreoceano. Protocollo?
Un mio autorevole interlocutore del canale ha commentato correttamente spostando poi le considerazioni sulla qualità del nostro inno nazionale.
Ho accettato volentieri l’interlocuzione e riconosco che il nostro inno non ha contenuti particolarmente coinvolgenti né nella lirica, carica di epopea risorgimentale, né nella metrica che batte un ritmo eccessivamente militaresco.
In risposta ho fatto le seguenti considerazioni:
Concordo. Devo dire però, sensazione assolutamente soggettiva, che essere inquadrati e marciare con l’inno di Mameli crea una suggestione che sommuove nell’intimo. Questo succedeva a me durante il mio servizio militare quando marciavo o comandavo picchetti dove, dopo lungo addestramento limitavo al minimo i richiami di sincronizzazione del passo.
Questa compenetrazione attiva è rimasta e ora, indipendentemente dai contenuti, poetici e musicali, risorge un’emozione quasi automatica e irrefrenabile.
C’è poi, ad abundantia, la coscienza che, volenti o nolenti, quello è l’Inno Nazionale.
Se sposto il giudizio nel dominio maggiormente obiettivo delle preferenze critiche, concordo pienamente sulla Canzone del Piave per il “crescendo” coinvolgente che fa coincidere la lirica con la musica.
Possiamo poi allargare il discorso al “Va’ pensiero” che richiama ondate malinconiche, ma andremmo troppo in là. Avrei potuto continuare anche con Il coro dell’Adelchi del terzo atto ma mi son fermato lì.
Nell’Adelchi il “volgo disperso repente si desta” e il crescendo conduce alla reazione all’invasore sempre più cosciente e organizzata, però l’invasore è un mestierante della guerra e tutto finisce quindi con la rassegnazione dell’ultimo verso.

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