E come si manifesta a volte in modo distruttivo, a volte in amore folle, a volte in malefici comportamenti.
A volte con la distruzione, che poi è la distruzione di se stessi e dell’altro/i. Mi riferisco soprattutto all’amore familiare intergenerazionale.

Ne prendo spunto dal film del 2007, visto pochi giorni fa, Donne, regole… e tanti guai!  [titolo originale: Georgia Rule; sottotitolo: Mother, Daughter, Grandmother – In this family, attitude doesn’t skip a generation ], nel quale tre donne di tre generazioni sono a dir poco scombinate. Ognuna con le proprie convinzioni, e soprattutto con le proprie velleità di libertà dagli schemi tradizionali, ma eccessivamente sregolate, verso il troppo rigido e verso il troppo anarchico, si misurano in un conflitto socio-familiare pervaso da eccessi in tutti i sensi: espressivi, sessuali, relazionali, sociali che smuovono a mugugno, critica e voyerismo la middle-class della provincia americana –  siamo nell’Idhao.

Molto brave le tre attrici – Jane Fonda, la nonna Georgia, Lindsay Lohan, la nipote Rachel, Felicity Huffman, Lilly, la madre. È una produzione indipendente con la regia di Garry Marshall – il regista, tra l’altro, di Pretty woman (1980), e Se scappi ti sposo (1999), The Princess diaries (2001).

Da un punto di vista interpretativo, lo spettatore non sa per chi parteggiare: sente che ognuno dei ruoli ha contenuti condivisibili, ma l’eccesso lo sconcerta e alterna le proprie impersonificazioni considerando con perplessità le rigide regole pratiche imposte, e praticate da sempre, dalla nonna, quacquera ortodossa, la sregolatezza, sentimentale, alimentare e alcolica della madre, la completa anarchia e il libertinaggio della figlia, e nipote, Rachel, culturalmente dotta (cita spesso letteratura e musica classica), ribelle oltre il limite della spudoratezza.

Mi ha smosso a questa paginetta critica, la considerazione che alla fine quello che supera tutto e sopravanza di gran lunga qualsiasi altro sentimento è “la famiglia” che fa finire il film con un lungo abbraccio delle tre che, non ostante le differenze di approccio alla vita, si ritrovano a sostenersi smontando qualsiasi precedente dissapore sui dettagli.

Gli uomini, tre, sono deuteragonisti con le loro peculiarità, che però poco influenzano i caratteri e l’iter di maturazione sentimentale e sociale delle tre donne. Domina l’imbarazzo continuo e la prevedibilità dello sviluppo narrativo, anche se la sceneggiatura spesso ci sorprende, sempre in chiave dissacrante.

Godibile e socialmente istruttivo, in un mondo culturalmente nordamericano e quindi, per me, sregolato per definizione, farcito di ipocrisie crasse, almeno dal punto di vista della cultura del vecchio mondo. Ma andrà a pochi che avremo connotati simili anche noi, a frutto della colonizzazione culturale proveniente da quella che io sento come non-cultura, appetto a una cultura antica di cinquemila anni come la nostra.

Non ho dato risposta alla domanda del titolo, che è nata dal coinvolgimento che ho sentito nell’abbraccio finale e che mi ha suggerito che, in fin dei conti, per quante colpe reciproche ci possano essere in una famiglia, dovrebbe sempre vincere l’amore, superiore a qualsiasi altro sentimento più tiepido e scostato. Certo che, come speso succede, l’essersi sempre sentito in colpa per qualsiasi inezia, scosta questo limite, portandolo a distanze probabilmente irraggiungibili.

Quindi: prima ritrovare l’equilibrio con se stessi, poi riavvicinar sentimenti più sorridenti.

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