Un racconto di Alberto Ragazzi.

Come in una sorta di evacuazione forzata tutti abbandonavano l’edificio, scendendo le scale avevamo tutti l’impermeabile, ma non avevamo notato se stesse piovendo o meno.
La penombra grigia autunnale aumentava l’effetto del silenzio, appena sfiorato dal brusio di voci basse e indistinte e accompagnato dal leggero e sordo sfregare degli impermeabili di nylon.
Buon ultimo del gruppo, alzando lo sguardo dalla moquette grigia, finalmente mi accorsi che fuori pioveva forte e molti esitavano sotto l’aggetto dell’ingresso. Ricordai allora che avevo lasciato l’ombrellino retrattile nero appoggiato al mobile basso sulla sinistra del mio grande ufficio.
Era l’ultima volta che tutti lasciavano gli uffici; fuori dai portali in vetro il brusio aumentò a sottolineare la scoperta della pioggia violenta: il solito lamento dell’impiegato, che scopriva che anche in quell’estremo momento la sua nuvoletta minacciosa non lo abbandonava.

Non so come, ma divenne per me imperativo tornare a recuperare l’ombrello, anche se avevo un trench lungo e dotato di cappuccio: era l’ultima volta e non potevo lasciarlo lì, non sapevo se quell’edificio sarebbe stato demolito o venduto, non sapevo, ma non potevo lasciarlo lì, l’ombrello!
Qualcuno mi scongiurò di non tornare su, ma c’era solo un piano, mi dissi, e la mia consueta testardaggine obbligò la risalita. Senza perplessità alcuna feci dietrofront, cominciai il breve percorso e percepii che, contro la corrente ormai smaltita di chi usciva, dietro di me, anche lei, con l’impermeabile cerato, luccicante, giallo, veniva verso la larga rampa delle scale. Non mi volsi per confermare quella sensazione, la davo per certa, e poi comunque avevo un altro obiettivo. Stavo percorrendo quel deserto, che man mano percepivo aumentare e tacere, per l’ultima volta verso l’interno, per recuperare un ombrello cui nemmeno tenevo troppo. Forse non sarebbe nemmeno stato necessario, ma l’impulso di tornare a prendere quel piccolo arnese era stato, chissà perché, più forte. Arrivai al piano, quasi nel buio, le finestre di fronte, larghe come la parete, davano ancora un leggero chiaror grigio, ma pur andandoci incontro non mi abbagliavano e vedevo chiaramente il percorso: l’avevo attraversato migliaia di volte!

Ora ero sicuro, lei era dietro di me, ma non mi aveva seguito, era anche lei rientrata per qualcosa dimenticata; presi l’ombrello nero con la piccola impugnatura argentata romboidale, mi volsi e la vidi, la sua pelle bruna e i capelli neri schizzavano fuori dal giallo impetuoso del soprabito, gli occhi neri erano sorridenti ancorché profondamente riflessivi, guardavano lontano, erano soprappensiero e andavano al di là del grigiore che ci circondava: moquette, pareti, soffitto, mobilia, appena si percepivano, le ciglia ben curate e le labbra rosse, troppo rosse e un po’ più grosse di sempre.
Era sconveniente, in quel momento, quel volto.

Ma mi avvicinai a lei, forse apparsi impetuoso, tanto che si scosse dai pensieri e si ritrasse, quasi con un sospiro mozzato da sorpresa e timore. Non mi aveva riconosciuto, e mi temeva? O mi voleva evitare? Non l’ho capito. Né me lo sono chiesto lì per lì,  l’impulso di abbracciarla era ben più forte, la coscienza di un’ultima volta era così potente che niente mi avrebbe frenato. Poi mi accorsi di quel ritegno e, quasi a giustificare la mia irruenza, che certo non voleva essere nemica né aggressiva, le dissi: “un… ultimo… bacio”. Rassicurata ma leggermente imbarazzata e, senza perdere l’arcano e segreto sorriso, si avvicinò anche lei, ci sfiorammo le labbra, in un bacio leggero ma fortemente sensuale, lo slancio stava portando all’abbraccio, i corpi si sentirono: non era nemmeno cominciato che udimmo lo scalpicciare di un passo quasi impercettibile che saliva gli ultimi gradini, era Li-Wu, la mia segretaria. Forse non ci notò, ma sperai che ci avesse visto, trasalii, trasalimmo, ci staccammo e mi svegliai.

Pioveva ancora,  ed ero su una nuvola, grigia anch’essa, solo, con la retina impressa di giallo e sopra, gli occhi interrogativi e perplessi di Li-Wu.

Non ricordo chi fosse la stupenda donna con l’impermeabile giallo. Sapevo che faceva parte della mia vita da lunga pezza, ma non la conoscevo o non la riconobbi.
Forse impersonava tutte le occasioni sentimentali, e non, lasciate dietro le spalle, forse la mia stessa anima che silenziosamente mi ricorreva per dirmi che mi apparteneva e io non lo sapevo, forse lo sconosciuto che ero a me stesso.
Me lo chiedevo mentre la nuvola grigia mi portava verso il blu e man mano diventava un altocumulo bianco; mi chiedevo anche come avessi fatto a stare in piedi, e con l’impermeabile, su una nuvola, quando iconicamente sulle nuvole si sta seduti.
Ma sorridevo.

 

© Alberto Ragazzi

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